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Quando si sfoglia Agarthi si ha la sensazione di udire un respiro, lento, profondo, stanco. Un respiro che scandisce il susseguirsi delle immagini, che ci accompagna e che ci guida all’interno di un mondo notturno, sotterraneo. La prima fotografia ci introduce a questa cadenza di suoni, il frangere delle onde, ad offrirci un ritmo attraverso il quale leggere il resto del racconto.
In questo libro vi è un convergere di tematiche che si sovrappongono e si intrecciano in una complessa trama, dove ad essere solleticate non sono solo le emozioni più profonde, ma anche i ricordi e l’immaginario.
Il primo tema è sicuramente il mito di Agarthi, da cui tutto il progetto prende il titolo. Agarthi (o Agartha, che in sanscrito significa “Inaccessibile”) è infatti il nome di un mondo sotterraneo, immaginario, in cui risiederebbe una civiltà nascosta. Esso sembra esser stato documentato, per la prima volta, in un testo del 1908, Il dio fumoso, di Willis George Emerson, il quale non ha fatto che alimentare le leggende e le fantasie attorno a questo presunto mondo altro. La sua inaccessibilità, e la ricerca spasmodica di possibili ingressi che potessero portare in questo sottosuolo cavo, è stata infatti oggetto di molte indagini, tra le quali si annovera anche quella compiuta dai nazisti per trovare le origini della razza ariana, immaginata risiedere proprio nel mondo di Agarthi.
Nelle fotografie di Gian Marco Sanna questa leggenda è codificata in un complesso di simbologie che fanno dell’alterità l’elemento cardine attorno a cui ruota tutta la narrazione. Innanzitutto, egli ha scelto la notte e le sue oscurità come base attorno alla quale comporre, con un’abile regia, un racconto dai tratti esoterici. La notte è infatti il momento dell’incertezza, degli spiriti (1), in cui si risvegliano forze terribili e insondabili per la ragione umana. In quel momento il lago di Bolsena si tramuta in qualcosa di ancor più imperscrutabile. Questo specchio d’acqua, di origini vulcaniche, è famoso infatti proprio per la profondità delle sue acque.
Ad accompagnare l’autore in questo viaggio troviamo figure “altre” rispetto a lui: una creatura femminile, ritratta nella penombra con uno sguardo “alieno”, a metà tra l’affascinante e l’agghiacciante; oppure fotografata mentre nuota, sommersa completamente dall’acqua, che la protegge; alberi e piante che attorniano il lago; alcuni animali, che, a differenza dell’uomo, non temono le oscurità della notte. Tutti questi attori costellano dunque il susseguirsi delle immagini, permettendoci di comprendere sempre più a fondo la sottile ambiguità in cui vuole condurci l’autore.
Il mito di Agarthi si presenta infatti non solo come il racconto leggendario di una civiltà perduta, immaginata come perfetta, ma trova delle corrispondenze anche nella rappresentazione cristiana del mondo sotterraneo degli inferi, di cui Dante Alighieri è il principale cantore.
L’ambiguità che qui emerge, ben descritta dall’alternarsi delle immagini, affonda le proprie radici in un’ulteriore tematica: quella del sacrificio. Dall’ascia del boia, fino al sangue sparso sul terreno e all’ostia, simbolo del sacrificio di Cristo per la civiltà cristiana, miti locali e credenze religiose si mischiano a descrivere una plurivocità di rappresentazioni del sacrum-facere (sacrificare).
Ecco dunque che, improvvisamente, Agarthi e i suoi abitanti trovano la loro collocazione nell’immaginario riprodotto da Sanna. Permane infatti una forte ambiguità nell’affiancare queste figure mitiche, da una parte, ai dannati degli inferi e, dall’altra, a divinità dai tratti eterei e perfetti. Questa ambivalenza può essere ben descritta se ricorriamo alla figura dell’Homo Sacer, di cui il filosofo Giorgio Agamben ha offerto un’analisi nell’omonimo testo (2). Sacer, in latino, significa infatti sacro ma, allo stesso tempo, bandito, esiliato. Il bando, che nella civiltà ebraica assumeva la forma di una consacrazione alla divinità, costituisce dunque un allontanamento che comporta un’inclusione nella sfera del sacro. Ecco dunque che colui/colei che diviene sacer entra a far parte di un mondo che può essere considerato l’alterità per eccellenza: «È stato osservato che mentre la consecratio fa normalmente passare un oggetto dallo ius humanum a quello divino, dal profano al sacro, nel caso dell’homo sacer una persona è posta semplicemente al di fuori della giurisdizione umana senza trapassare in quella divina (3)».
Le immagini composte da Sanna sembrano proprio condurci verso quest’ambivalenza del sacro. Chi sono gli abitanti di Agarthi? Sono umani o divinità? Essi sono stati esclusi o si sono volontariamente allontanati dal mondo umano senza entrare in quello divino? Essi sono andati ad abitare un luogo sotterraneo che, nell’immaginario cristiano, è già abitato da esseri esclusi (ricordiamoci che il diavolo è un angelo cacciato dal Paradiso).
Ciò che resta di queste domande è un percorso narrativo onirico, il cui ingresso e la cui uscita sono sanciti dall’attraversamento (visivo) di due elementi opposti e complementari: l’acqua ed il fuoco. Entrambi, in maniera trasversale, costituiscono una via di purificazione rituale oltre la quale uscire rinati, diversi.
1. Si vedano i miti stregoneschi africani, in cui, durante la notte, a prendere il sopravvento sono gli spiriti o “doppi” del mondo diurno, i cui rapporti di forza determinano poi gli eventi che accadranno al sorgere del sole. Cfr. Geschiere Peter (1995), Sorcellerie et politique en Afrique, La viande des autres, Karthala, Paris.
2. Agamben Giorgio (1995), Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino.
3. Id, Ibidem, pp. 90-91.
Quando si sfoglia Agarthi si ha la sensazione di udire un respiro, lento, profondo, stanco. Un respiro che scandisce il susseguirsi delle immagini, che ci accompagna e che ci guida all’interno di un mondo notturno, sotterraneo. La prima fotografia ci introduce a questa cadenza di suoni, il frangere delle onde, ad offrirci un ritmo attraverso il quale leggere il resto del racconto.
In questo libro vi è un convergere di tematiche che si sovrappongono e si intrecciano in una complessa trama, dove ad essere solleticate non sono solo le emozioni più profonde, ma anche i ricordi e l’immaginario.
Il primo tema è sicuramente il mito di Agarthi, da cui tutto il progetto prende il titolo. Agarthi (o Agartha, che in sanscrito significa “Inaccessibile”) è infatti il nome di un mondo sotterraneo, immaginario, in cui risiederebbe una civiltà nascosta. Esso sembra esser stato documentato, per la prima volta, in un testo del 1908, Il dio fumoso, di Willis George Emerson, il quale non ha fatto che alimentare le leggende e le fantasie attorno a questo presunto mondo altro. La sua inaccessibilità, e la ricerca spasmodica di possibili ingressi che potessero portare in questo sottosuolo cavo, è stata infatti oggetto di molte indagini, tra le quali si annovera anche quella compiuta dai nazisti per trovare le origini della razza ariana, immaginata risiedere proprio nel mondo di Agarthi.
Nelle fotografie di Gian Marco Sanna questa leggenda è codificata in un complesso di simbologie che fanno dell’alterità l’elemento cardine attorno a cui ruota tutta la narrazione. Innanzitutto, egli ha scelto la notte e le sue oscurità come base attorno alla quale comporre, con un’abile regia, un racconto dai tratti esoterici. La notte è infatti il momento dell’incertezza, degli spiriti (1), in cui si risvegliano forze terribili e insondabili per la ragione umana. In quel momento il lago di Bolsena si tramuta in qualcosa di ancor più imperscrutabile. Questo specchio d’acqua, di origini vulcaniche, è famoso infatti proprio per la profondità delle sue acque.
Ad accompagnare l’autore in questo viaggio troviamo figure “altre” rispetto a lui: una creatura femminile, ritratta nella penombra con uno sguardo “alieno”, a metà tra l’affascinante e l’agghiacciante; oppure fotografata mentre nuota, sommersa completamente dall’acqua, che la protegge; alberi e piante che attorniano il lago; alcuni animali, che, a differenza dell’uomo, non temono le oscurità della notte. Tutti questi attori costellano dunque il susseguirsi delle immagini, permettendoci di comprendere sempre più a fondo la sottile ambiguità in cui vuole condurci l’autore.
Il mito di Agarthi si presenta infatti non solo come il racconto leggendario di una civiltà perduta, immaginata come perfetta, ma trova delle corrispondenze anche nella rappresentazione cristiana del mondo sotterraneo degli inferi, di cui Dante Alighieri è il principale cantore.
L’ambiguità che qui emerge, ben descritta dall’alternarsi delle immagini, affonda le proprie radici in un’ulteriore tematica: quella del sacrificio. Dall’ascia del boia, fino al sangue sparso sul terreno e all’ostia, simbolo del sacrificio di Cristo per la civiltà cristiana, miti locali e credenze religiose si mischiano a descrivere una plurivocità di rappresentazioni del sacrum-facere (sacrificare).
Ecco dunque che, improvvisamente, Agarthi e i suoi abitanti trovano la loro collocazione nell’immaginario riprodotto da Sanna. Permane infatti una forte ambiguità nell’affiancare queste figure mitiche, da una parte, ai dannati degli inferi e, dall’altra, a divinità dai tratti eterei e perfetti. Questa ambivalenza può essere ben descritta se ricorriamo alla figura dell’Homo Sacer, di cui il filosofo Giorgio Agamben ha offerto un’analisi nell’omonimo testo (2). Sacer, in latino, significa infatti sacro ma, allo stesso tempo, bandito, esiliato. Il bando, che nella civiltà ebraica assumeva la forma di una consacrazione alla divinità, costituisce dunque un allontanamento che comporta un’inclusione nella sfera del sacro. Ecco dunque che colui/colei che diviene sacer entra a far parte di un mondo che può essere considerato l’alterità per eccellenza: «È stato osservato che mentre la consecratio fa normalmente passare un oggetto dallo ius humanum a quello divino, dal profano al sacro, nel caso dell’homo sacer una persona è posta semplicemente al di fuori della giurisdizione umana senza trapassare in quella divina (3)».
Le immagini composte da Sanna sembrano proprio condurci verso quest’ambivalenza del sacro. Chi sono gli abitanti di Agarthi? Sono umani o divinità? Essi sono stati esclusi o si sono volontariamente allontanati dal mondo umano senza entrare in quello divino? Essi sono andati ad abitare un luogo sotterraneo che, nell’immaginario cristiano, è già abitato da esseri esclusi (ricordiamoci che il diavolo è un angelo cacciato dal Paradiso).
Ciò che resta di queste domande è un percorso narrativo onirico, il cui ingresso e la cui uscita sono sanciti dall’attraversamento (visivo) di due elementi opposti e complementari: l’acqua ed il fuoco. Entrambi, in maniera trasversale, costituiscono una via di purificazione rituale oltre la quale uscire rinati, diversi.
1. Si vedano i miti stregoneschi africani, in cui, durante la notte, a prendere il sopravvento sono gli spiriti o “doppi” del mondo diurno, i cui rapporti di forza determinano poi gli eventi che accadranno al sorgere del sole. Cfr. Geschiere Peter (1995), Sorcellerie et politique en Afrique, La viande des autres, Karthala, Paris.
2. Agamben Giorgio (1995), Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino.
3. Id, Ibidem, pp. 90-91.
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