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Oggi stiamo assistendo a due principali movimenti epocali: il ritorno delle grandi missioni spaziali, simbolo di una nuova speranza per l’umanità, per l’umanità intesa come Occidente sarebbe più corretto dire; e una nuova, enorme e incontrollabile crisi della presenza collettiva, data dall’inarrestabile accelerazione del riscaldamento globale, con tutte le drammatiche conseguenze che stiamo con sgomento iniziando a conoscere.
Non sono prospettive realmente nuove, sia gli scienziati che anche poi artisti e scrittori si interrogano da decenni sui destini del nostro pianeta, ma se fino a qualche tempo fa si poteva ancora parlare di destini, al plurale, perché erano ancora possibili molteplici strategie per invertire la rotta, nel 2022 sembra difficile trovare anche solo la parola “domani” tra i nostri pensieri.
Le fotografie di Stefano Parrini oscillano tra questi due movimenti, togliendo definitivamente i veli dell’ultima illusione tecnologica e costringendoci a rimanere soli col deserto, luogo per eccellenza di assoluti esistenziali.
Ritorna il plurale: i possibili destini che abbiamo perduto si sono trasformati in una molteplicità di solitudini e di silenzi, spazi infiniti eppure chiusi, impenetrabili, rette destinate a non incontrarsi mai.
Potrebbero essere fotogrammi - frammenti - dall’ultima missione spaziale, testimonianza della disperazione dell’uomo alla ricerca di un mondo nuovo; oppure potrebbero essere immagini restituite da una delle innumerevoli telecamere che oggi registrano la frenesia delle nostre città, unico sguardo sopravvissuto sulla polvere e sul vuoto che ci aspettano; oppure, ancora, immagini dal passato del nostro pianeta, quando l’esistenza ribolliva informe nelle viscere della Terra.
Ma chi è che riceve queste immagini e perché?
“Anche se lo spettacolo era funebre, non era possibile non pensare, con una specie di amaro sorriso, a quanto si fosse sforzata la materia per accendere, come due schegge di silice sfregate una sull’altra, la fiamma insignificante della vita”. (Mircea Cărtărescu, Solenoide, tr. Bruno Mazzoni, ilSaggiatore, 2021, p. 435)
Mentre mi muovo tra le pagine del volume, mi risuonano queste parole dello scrittore rumeno Mircea Cărtărescu e penso che, se oggi non sappiamo più ritrovare una strada che sappia restituirci il senso della nostra esistenza, probabilmente è perché abbiamo smesso di meravigliarci di fronte al fatto che, tra miliardi di possibilità, quella della vita è riuscita a emergere e sbocciare, anche se solo per una parentesi minuscola nel tempo enorme dell’universo.
Allora ecco a chi parlano questi deserti: a chi ricerca quella scintilla nel buio che ci soffoca, a chi vuole chiamarla dio, a chi non sa darle un nome ma sa che c’è e che la sua esistenza è l’unico vero miracolo che ci è concesso di esperire e che abbiamo dimenticato quasi del tutto.
Da qualche tempo sto maturando l’idea che, perché la fotografia possa ritrovare un senso, deve dimenticare se stessa e riprendere la strada della rappresentazione, tornare a essere strumento per altro, per un qualcosa di più importante.
L’essere umano ha iniziato il suo percorso nella Storia lasciandoci le immagini dei leggendari uri, dei segni che una mano sconosciuta ha tracciato sulla roccia perché non dimenticassimo, perché avessimo sempre alle nostre spalle la stabilità di una memoria; oggi che la possibilità stessa della memoria è messa in discussione da un presente sempre più corto, soffocato da un futuro fragile e incerto, diventa necessario tracciare nuove immagini e lasciare nuovi segni, che siano in grado di parlare, attraverso le paure e i bisogni di oggi, all’umanità di domani.
Letture consigliate:
Mircea Cărtărescu, Solenoide, tr. Bruno Mazzoni, ilSaggiatore, 2021;
Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti.Una topologia del presente, tr. Simone Aglan-Buttazzi, nottetempo, 2021;
Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 1977;
Stefano Catucci, Imparare dalla Luna, Quodlibet, 2013;
Giuseppe Frazzetto, Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica, Quodlibet, 2022.
Oggi stiamo assistendo a due principali movimenti epocali: il ritorno delle grandi missioni spaziali, simbolo di una nuova speranza per l’umanità, per l’umanità intesa come Occidente sarebbe più corretto dire; e una nuova, enorme e incontrollabile crisi della presenza collettiva, data dall’inarrestabile accelerazione del riscaldamento globale, con tutte le drammatiche conseguenze che stiamo con sgomento iniziando a conoscere.
Non sono prospettive realmente nuove, sia gli scienziati che anche poi artisti e scrittori si interrogano da decenni sui destini del nostro pianeta, ma se fino a qualche tempo fa si poteva ancora parlare di destini, al plurale, perché erano ancora possibili molteplici strategie per invertire la rotta, nel 2022 sembra difficile trovare anche solo la parola “domani” tra i nostri pensieri.
Le fotografie di Stefano Parrini oscillano tra questi due movimenti, togliendo definitivamente i veli dell’ultima illusione tecnologica e costringendoci a rimanere soli col deserto, luogo per eccellenza di assoluti esistenziali.
Ritorna il plurale: i possibili destini che abbiamo perduto si sono trasformati in una molteplicità di solitudini e di silenzi, spazi infiniti eppure chiusi, impenetrabili, rette destinate a non incontrarsi mai.
Potrebbero essere fotogrammi - frammenti - dall’ultima missione spaziale, testimonianza della disperazione dell’uomo alla ricerca di un mondo nuovo; oppure potrebbero essere immagini restituite da una delle innumerevoli telecamere che oggi registrano la frenesia delle nostre città, unico sguardo sopravvissuto sulla polvere e sul vuoto che ci aspettano; oppure, ancora, immagini dal passato del nostro pianeta, quando l’esistenza ribolliva informe nelle viscere della Terra.
Ma chi è che riceve queste immagini e perché?
“Anche se lo spettacolo era funebre, non era possibile non pensare, con una specie di amaro sorriso, a quanto si fosse sforzata la materia per accendere, come due schegge di silice sfregate una sull’altra, la fiamma insignificante della vita”. (Mircea Cărtărescu, Solenoide, tr. Bruno Mazzoni, ilSaggiatore, 2021, p. 435)
Mentre mi muovo tra le pagine del volume, mi risuonano queste parole dello scrittore rumeno Mircea Cărtărescu e penso che, se oggi non sappiamo più ritrovare una strada che sappia restituirci il senso della nostra esistenza, probabilmente è perché abbiamo smesso di meravigliarci di fronte al fatto che, tra miliardi di possibilità, quella della vita è riuscita a emergere e sbocciare, anche se solo per una parentesi minuscola nel tempo enorme dell’universo.
Allora ecco a chi parlano questi deserti: a chi ricerca quella scintilla nel buio che ci soffoca, a chi vuole chiamarla dio, a chi non sa darle un nome ma sa che c’è e che la sua esistenza è l’unico vero miracolo che ci è concesso di esperire e che abbiamo dimenticato quasi del tutto.
Da qualche tempo sto maturando l’idea che, perché la fotografia possa ritrovare un senso, deve dimenticare se stessa e riprendere la strada della rappresentazione, tornare a essere strumento per altro, per un qualcosa di più importante.
L’essere umano ha iniziato il suo percorso nella Storia lasciandoci le immagini dei leggendari uri, dei segni che una mano sconosciuta ha tracciato sulla roccia perché non dimenticassimo, perché avessimo sempre alle nostre spalle la stabilità di una memoria; oggi che la possibilità stessa della memoria è messa in discussione da un presente sempre più corto, soffocato da un futuro fragile e incerto, diventa necessario tracciare nuove immagini e lasciare nuovi segni, che siano in grado di parlare, attraverso le paure e i bisogni di oggi, all’umanità di domani.
Letture consigliate:
Mircea Cărtărescu, Solenoide, tr. Bruno Mazzoni, ilSaggiatore, 2021;
Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti.Una topologia del presente, tr. Simone Aglan-Buttazzi, nottetempo, 2021;
Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 1977;
Stefano Catucci, Imparare dalla Luna, Quodlibet, 2013;
Giuseppe Frazzetto, Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica, Quodlibet, 2022.
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