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La rapsodia è un componimento caratterizzato dall’unire temi diversi in modo molto libero ricorrendo spesso all’improvvisazione. È un’opera la cui struttura non viene progettata a tavolino, ma nasce nel momento in cui viene prodotta, seguendo virtuosismo e ispirazione, sulla base di un canovaccio e di un repertorio preesistente. Prende il nome dai rapsodi, come erano chiamati i poeti greci che recitavano o cantavano sulla pubblica piazza le gesta in rima degli antichi eroi.
In genere si dice che gli antichi inventarono l’artificio della rima per ricordare meglio quei lunghissimi componimenti, di cui a noi sono giunte delle trascrizioni tarde che chiamiamo ad esempio Iliade o Odissea, in un tempo in cui ancora non esisteva la scrittura come supporto alla memoria. Classico modo di invertire causa ed effetto. Bisogna semmai intendere che fu la memoria, intessuta dentro la rima e il ritmo come modi di raffigurare il mondo cioè di piegarlo su di sé per farlo ritornare e danzare, a inventare gli “uomini” come effetto del loro stesso ricordare cantando. Cosa cantavano, cosa ricordavano? Di nuovo la memoria, cioè gli antenati, insomma se stessi e la propria terra come luogo e custodia dei propri morti. Voltandosi indietro, da una giusta distanza, cantavano la propria memoria nel momento in cui potevano finalmente vederla: solo l’uomo infatti vede l’invisibile, l’assente, e solo l’uomo può dirlo. Posso dire “cavallo” ma non c’è nessun cavallo qui: il linguaggio non è che una continua evocazione di ciò che non c’è, del ricordo cantato e del suo ritorno "in figura". Oggi noi chiamiamo tutto questo “epica”.
Distanza, varietà dei temi e delle forme, abilità nel tessere assieme le diverse fonti, terra d’origine, ricordo, poesia, epica come racconto collettivo: sono tutti elementi che possiamo facilmente ritrovare sfogliando le pagine di Rhapsody, il fotolibro di Mauro Corinti uscito da Penisola Edizioni in collaborazione con Urbanautica.
«Dopo aver passato molti anni all'esterno - racconta Corinti - oggi vivo nella città in cui sono sono nato e cresciuto: Ascoli Piceno, una città al confine tra le Marche e l'Abruzzo. Mario Benedetti, uno dei più grandi poeti sudamericani, ha scritto: “Ognuno appartiene a un posto sulla Terra e deve rendergli omaggio”. Queste parole mi hanno ispirato per questa indagine sul mio “qui”, il mio posto sulla Terra. Rhapsody è un progetto che nasce dal desiderio di riscoprire nuovi significati dietro i paesaggi della mia vita quotidiana per tornare a una visione personale del luogo in cui vivo».
Dopo anni di retorica della globalizzazione, molti artisti riscoprono la necessità di radicare la propria opera in una dimensione che riesca a tenere assieme periferico e globale, senza scivolare nel localismo strapaesano o nel pittoresco turistico e senza inseguire modalità “internazionali” stereotipate. Si tratta di una via per sua natura multiforme e laicamente tollerante verso le diversità, interessata all’indagine approfondita, alla conoscenza diretta, all’analisi di tematiche radicate in situazioni reali e che tuttavia sa inseguirne i nessi sovralocali, le somiglianze a distanza, sa esprimersi in una lingua franca comprensibile oltreconfine, lontana dal rispetto di vecchi steccati e gerarchie. La ricerca fotografica, in un tempo che è assieme maturo e mutevole, è oggi di fronte alla possibilità di utilizzare molti diversi linguaggi: il linguaggio fotogiornalistico e documentario, depurato da pretese di oggettività ormai fuori luogo, l’approccio lirico e memoriale, l’interesse concettuale, l’attenzione all’iconografia e ai segni stratificati e sa usare tutto quanto per costruire opere articolate, a volte complesse, altre volte, come inel caso di Corinti, felicemente “rapsodiche”, capaci cioè di rappresentare una terra, una gente, una storia con la leggerezza di uno scherzo musicale. Basta sfogliare il suo libro per rendersene conto.
«Ho dedicato la mia attenzione - racconta ancora Corinti - ad alcuni luoghi che pensavo di conoscere bene, gli spazi quotidiani in cui vivo e cammino. Questo progetto mi ha permesso di fermarmi e osservare, forse per la prima volta, questi luoghi “noti”. Come se, paradossalmente, la loro vicinanza, e quindi l'abitudine relativa di viverli, nel tempo avessero inibito la mia capacità di percepirli. Nel tentativo di raccontare questi spazi così vicini alla mia storia personale, lo sforzo principale è stato quello di immaginare un punto di vista diverso dal solito. La cosa sorprendente è che a poco a poco mi sono stati rivelati così tanti elementi nascosti».
Credo sia così: Rhapsody non vuole essere un’indagine scientifica e non si preoccupa troppo della coerenza degli stili, anzi, fedele al titolo, gioca tra gli stili e i temi e li cuce assieme in un resoconto personale, un viaggio cantato pieno di ricordi e nuove scoperte: e allora sia chi ha vissuto quei luoghi, sia chi solamente li vede per la prima volta, fatica a non assecondare il canto con quel tipico movimento del piede che tiene il ritmo, come una canzone popolare sentita mille volte oppure mai ascoltata prima, eppure così prossima a tutti noi.
La rapsodia è un componimento caratterizzato dall’unire temi diversi in modo molto libero ricorrendo spesso all’improvvisazione. È un’opera la cui struttura non viene progettata a tavolino, ma nasce nel momento in cui viene prodotta, seguendo virtuosismo e ispirazione, sulla base di un canovaccio e di un repertorio preesistente. Prende il nome dai rapsodi, come erano chiamati i poeti greci che recitavano o cantavano sulla pubblica piazza le gesta in rima degli antichi eroi.
In genere si dice che gli antichi inventarono l’artificio della rima per ricordare meglio quei lunghissimi componimenti, di cui a noi sono giunte delle trascrizioni tarde che chiamiamo ad esempio Iliade o Odissea, in un tempo in cui ancora non esisteva la scrittura come supporto alla memoria. Classico modo di invertire causa ed effetto. Bisogna semmai intendere che fu la memoria, intessuta dentro la rima e il ritmo come modi di raffigurare il mondo cioè di piegarlo su di sé per farlo ritornare e danzare, a inventare gli “uomini” come effetto del loro stesso ricordare cantando. Cosa cantavano, cosa ricordavano? Di nuovo la memoria, cioè gli antenati, insomma se stessi e la propria terra come luogo e custodia dei propri morti. Voltandosi indietro, da una giusta distanza, cantavano la propria memoria nel momento in cui potevano finalmente vederla: solo l’uomo infatti vede l’invisibile, l’assente, e solo l’uomo può dirlo. Posso dire “cavallo” ma non c’è nessun cavallo qui: il linguaggio non è che una continua evocazione di ciò che non c’è, del ricordo cantato e del suo ritorno "in figura". Oggi noi chiamiamo tutto questo “epica”.
Distanza, varietà dei temi e delle forme, abilità nel tessere assieme le diverse fonti, terra d’origine, ricordo, poesia, epica come racconto collettivo: sono tutti elementi che possiamo facilmente ritrovare sfogliando le pagine di Rhapsody, il fotolibro di Mauro Corinti uscito da Penisola Edizioni in collaborazione con Urbanautica.
«Dopo aver passato molti anni all'esterno - racconta Corinti - oggi vivo nella città in cui sono sono nato e cresciuto: Ascoli Piceno, una città al confine tra le Marche e l'Abruzzo. Mario Benedetti, uno dei più grandi poeti sudamericani, ha scritto: “Ognuno appartiene a un posto sulla Terra e deve rendergli omaggio”. Queste parole mi hanno ispirato per questa indagine sul mio “qui”, il mio posto sulla Terra. Rhapsody è un progetto che nasce dal desiderio di riscoprire nuovi significati dietro i paesaggi della mia vita quotidiana per tornare a una visione personale del luogo in cui vivo».
Dopo anni di retorica della globalizzazione, molti artisti riscoprono la necessità di radicare la propria opera in una dimensione che riesca a tenere assieme periferico e globale, senza scivolare nel localismo strapaesano o nel pittoresco turistico e senza inseguire modalità “internazionali” stereotipate. Si tratta di una via per sua natura multiforme e laicamente tollerante verso le diversità, interessata all’indagine approfondita, alla conoscenza diretta, all’analisi di tematiche radicate in situazioni reali e che tuttavia sa inseguirne i nessi sovralocali, le somiglianze a distanza, sa esprimersi in una lingua franca comprensibile oltreconfine, lontana dal rispetto di vecchi steccati e gerarchie. La ricerca fotografica, in un tempo che è assieme maturo e mutevole, è oggi di fronte alla possibilità di utilizzare molti diversi linguaggi: il linguaggio fotogiornalistico e documentario, depurato da pretese di oggettività ormai fuori luogo, l’approccio lirico e memoriale, l’interesse concettuale, l’attenzione all’iconografia e ai segni stratificati e sa usare tutto quanto per costruire opere articolate, a volte complesse, altre volte, come inel caso di Corinti, felicemente “rapsodiche”, capaci cioè di rappresentare una terra, una gente, una storia con la leggerezza di uno scherzo musicale. Basta sfogliare il suo libro per rendersene conto.
«Ho dedicato la mia attenzione - racconta ancora Corinti - ad alcuni luoghi che pensavo di conoscere bene, gli spazi quotidiani in cui vivo e cammino. Questo progetto mi ha permesso di fermarmi e osservare, forse per la prima volta, questi luoghi “noti”. Come se, paradossalmente, la loro vicinanza, e quindi l'abitudine relativa di viverli, nel tempo avessero inibito la mia capacità di percepirli. Nel tentativo di raccontare questi spazi così vicini alla mia storia personale, lo sforzo principale è stato quello di immaginare un punto di vista diverso dal solito. La cosa sorprendente è che a poco a poco mi sono stati rivelati così tanti elementi nascosti».
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Penisola Edizioni
Publishing house that researches
and publishes Italian authors.
2021 © Penisola Edizioni
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Design Roberto Vito D'Amico
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