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Le antiche città erano custodite dal pomerio, uno spazio sacro, un solco, che costituiva come un muro invisibile che aveva la doppia funzione di divisione e di protezione da spiriti maligni, sfortuna, disgrazie; oltre il pomerio il mistero.
Quella del rapsodo è una figura ambigua, è un nomade, quasi un apolide, eppure a lui è affidata la trasmissione della tradizione e quindi delle città, delle civiltà, dei regni e delle vicende umane tutte; a differenza dell’aedo, che era un personaggio sacro, direttamente ispirato dalle muse e dunque tramite divino, il rapsodo, come l’etimologia suggerisce, era un semplice “cucitore di canti”, più assimilabile al cantastorie, quel personaggio che, attraversando limiti e mondi, abbraccia l’umanità intera.
Ugualmente ambigua è l’idea di confine, che divide ma pure unisce, che coglie differenze e similitudini e soprattutto separa quello che è il mondo umano - fatto di convenzioni, di scelte arbitrarie, di regole - e quello della natura, del sacro, delle cose che semplicemente sono.
Le terre di confine sono sempre terre sospette: mete per rei in fuga, periferie della legge e dei costumi, luogo di confusione, casa di briganti e avanzi di galera; ugualmente sospetti sono gli usi e la lingua dei loro abitanti, che si muovono anch’essi nell’indefinito e nel mescolamento, officine per nuovi idiomi, laboratori di significati e mutamenti, e di questi mutamenti sono in genere osservatori attenti proprio quei cantori che, vagando per il mondo, lo osservano attraversandolo sempre e mai cedendo alla tentazione del restare.
Abitante di confine, dell’oltre pomerio, Mauro Corinti nell’opera Rhapsody racconta il senso ontologico dell’abitare l’ambiguità, un percorso che si apre all’ombra del bosco - altro luogo di pericolo esistenziale - , con un sentiero leggermente velato dalla nebbia ma dolce e percorribile, e si chiude con vie impraticabili, strade di pietra dura e pericolosa, mal contenuta dal misero intervento umano: perché se è rischioso entrare nel mondo oltre il confine, lo è ancora di più lasciarlo.
In questo viaggio il rapsodo sceglie di accompagnarci per un tramite privilegiato, ovvero la fotografia, che costituisce essa stessa una soglia attraversando la quale riusciamo a trovare mondi e misteri difficilmente avvicinabili; quindi, protetti dallo sguardo dell’autore, possiamo inoltrarci nello svelamento che si annuncia immediatamente nella sua difficoltà mettendoci di fronte a due divieti: una finestra ostacolata da un corpo, che sembra mimare una morte abbandonata, e un muro dove, al posto della precedente finestra, troviamo una macchia bianca, come un recente sbarramento. Il viaggio è iniziato.
Istruiti dai precedenti moniti, riusciamo finalmente a trovare un percorso; allora affiorano strade, lo sbarramento di prima si anima - diviene animale - e lascia passare il nuovo ospite, permettendogli di incontrare un’umanità diversa e inaspettata, che ha anch’essa il suo ordine esistenziale, i suoi sacrifici, le sue divinità. L’altro diviene familiare, si scopre identico a noi e il confine inizia a sfumare, a perdersi.
“non utopia, piuttosto un astigmatico sguardo”.
Abbandonare l’idea della ricerca di un paradiso, di una terra pura e ingenua è uno dei passi necessari per ritrovare la dignità dei luoghi considerati minori; idealizzarli, raccontarli come diversi significa comunque operare una divisione netta tra noi e loro, e solo attraversandoli senza aspettative riusciremo a guardarli per quel che sono: lo sguardo astigmatico, col suo posarsi confuso e allarmato sulle cose, si rende necessario per annullare ogni separazione in un mondo che diviene così uno senza perdere di molteplicità. A-stigmatico, svuotato di pregiudizi.
Ed ecco che si manifesta il pericolo vero, quello dell’iniziato che attraversa lo spazio della verità.
Si alzano allora gli specchi, quelli che ci mostrano le nostre stesse contraddizioni: le stesse divinità perseguitate e non riconosciute, la violenza, la paura; ma anche la stessa gioia, il gioco, e come un sentimento di appartenenza a un unico destino.
A questo punto però il rapsodo va, riprende il cammino dei canti.
Le antiche città erano custodite dal pomerio, uno spazio sacro, un solco, che costituiva come un muro invisibile che aveva la doppia funzione di divisione e di protezione da spiriti maligni, sfortuna, disgrazie; oltre il pomerio il mistero.
Quella del rapsodo è una figura ambigua, è un nomade, quasi un apolide, eppure a lui è affidata la trasmissione della tradizione e quindi delle città, delle civiltà, dei regni e delle vicende umane tutte; a differenza dell’aedo, che era un personaggio sacro, direttamente ispirato dalle muse e dunque tramite divino, il rapsodo, come l’etimologia suggerisce, era un semplice “cucitore di canti”, più assimilabile al cantastorie, quel personaggio che, attraversando limiti e mondi, abbraccia l’umanità intera.
Ugualmente ambigua è l’idea di confine, che divide ma pure unisce, che coglie differenze e similitudini e soprattutto separa quello che è il mondo umano - fatto di convenzioni, di scelte arbitrarie, di regole - e quello della natura, del sacro, delle cose che semplicemente sono.
Le terre di confine sono sempre terre sospette: mete per rei in fuga, periferie della legge e dei costumi, luogo di confusione, casa di briganti e avanzi di galera; ugualmente sospetti sono gli usi e la lingua dei loro abitanti, che si muovono anch’essi nell’indefinito e nel mescolamento, officine per nuovi idiomi, laboratori di significati e mutamenti, e di questi mutamenti sono in genere osservatori attenti proprio quei cantori che, vagando per il mondo, lo osservano attraversandolo sempre e mai cedendo alla tentazione del restare.
Abitante di confine, dell’oltre pomerio, Mauro Corinti nell’opera Rhapsody racconta il senso ontologico dell’abitare l’ambiguità, un percorso che si apre all’ombra del bosco - altro luogo di pericolo esistenziale - , con un sentiero leggermente velato dalla nebbia ma dolce e percorribile, e si chiude con vie impraticabili, strade di pietra dura e pericolosa, mal contenuta dal misero intervento umano: perché se è rischioso entrare nel mondo oltre il confine, lo è ancora di più lasciarlo.
In questo viaggio il rapsodo sceglie di accompagnarci per un tramite privilegiato, ovvero la fotografia, che costituisce essa stessa una soglia attraversando la quale riusciamo a trovare mondi e misteri difficilmente avvicinabili; quindi, protetti dallo sguardo dell’autore, possiamo inoltrarci nello svelamento che si annuncia immediatamente nella sua difficoltà mettendoci di fronte a due divieti: una finestra ostacolata da un corpo, che sembra mimare una morte abbandonata, e un muro dove, al posto della precedente finestra, troviamo una macchia bianca, come un recente sbarramento. Il viaggio è iniziato.
Istruiti dai precedenti moniti, riusciamo finalmente a trovare un percorso; allora affiorano strade, lo sbarramento di prima si anima - diviene animale - e lascia passare il nuovo ospite, permettendogli di incontrare un’umanità diversa e inaspettata, che ha anch’essa il suo ordine esistenziale, i suoi sacrifici, le sue divinità. L’altro diviene familiare, si scopre identico a noi e il confine inizia a sfumare, a perdersi.
“non utopia, piuttosto un astigmatico sguardo”.
Abbandonare l’idea della ricerca di un paradiso, di una terra pura e ingenua è uno dei passi necessari per ritrovare la dignità dei luoghi considerati minori; idealizzarli, raccontarli come diversi significa comunque operare una divisione netta tra noi e loro, e solo attraversandoli senza aspettative riusciremo a guardarli per quel che sono: lo sguardo astigmatico, col suo posarsi confuso e allarmato sulle cose, si rende necessario per annullare ogni separazione in un mondo che diviene così uno senza perdere di molteplicità. A-stigmatico, svuotato di pregiudizi.
Ed ecco che si manifesta il pericolo vero, quello dell’iniziato che attraversa lo spazio della verità.
Si alzano allora gli specchi, quelli che ci mostrano le nostre stesse contraddizioni: le stesse divinità perseguitate e non riconosciute, la violenza, la paura; ma anche la stessa gioia, il gioco, e come un sentimento di appartenenza a un unico destino.
A questo punto però il rapsodo va, riprende il cammino dei canti.
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