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La funzione di una strada è quella di essere percorsa al fine di raggiungere un luogo, il suo motivo di esistenza sta nel fare da collegamento da un punto A a un punto B, e di solito ne valutiamo la qualità in base a quanto renda confortevole il tragitto e quanto, soprattutto oggi, lo renda veloce.
Quando invece ci troviamo a ripercorrere una via senza nessuno scopo preciso allora ecco che la strada assume tutto un altro valore e diviene viaggio, diviene spazio significativo per sé stesso e non solo funzionale per altro, fatto di tempo necessario, di sguardo attento, di orecchie pronte all’ascolto. Ed è proprio l’udito il senso maggiormente coinvolto nel volume di Giovanni Cecchinato, perché sorpreso dal silenzio che si avverte in quei paesaggi che ci immaginiamo aggrediti dal traffico, dal vento che sbatte sui finestrini, dai cantieri che si moltiplicano esasperando il percorso: e così l’Alemagna compare, affiora nel suo senso e si fa soggetto.
È un’operazione di sottrazione, e l’assenza più evidente, dopo quella del rumore, è quella dell’immaginario abituale che accompagna l’Alemagna, ovvero le interminabili code di vacanzieri, la prospettiva del sedile e della noia, della voglia di arrivare presto alla meta: è assente la fretta.
Già solo riflettendo sulle modalità di scatto si intuisce come il fotografo si sia posto in una condizione diversa da quella abituale, cercando spazi e colori precisi, utilizzando attrezzature che necessariamente si allontanano dalla veloce fotografia del consumo. Sono momenti di riposo, intimi, nei quali il percorso, finalmente interrogato, può raccontare una storia che è esso stesso a determinare.
Innanzitutto sorprende la sospensione temporale, data da luci e toni sempre coerenti, una operazione che non ha una funzione solo estetica, ma che contribuisce ulteriormente alla sottrazione, qui eliminando l’inevitabile passare delle ore che viviamo durante il viaggio, espandendo l’istante e il movimento, e di fatto ponendoci in una situazione di fruizione anomala, dove ogni momento - dove ogni evento - risulta contemporaneo al precedente e al successivo. Allora la diga del Vajont diviene contemporanea al villaggio Eni, che vede la sua nascita e poi il suo abbandono contemporanei alla sua nuova veste, e il presente della totalità dell’Alemagna si fa presente con i resti romanici e con le sue più recenti espansioni e deviazioni, mentre i territori, anziché collocarsi in un prima e dopo si presentano tutti assieme, tutti sullo stesso piano.
La memoria e la storia subiscono lo stesso processo, quindi quello che di solito, in quanto passato, siamo abituati a considerare archiviato, non più vivo, riemerge con la stessa forza delle azioni presenti e future.
Molto spesso, cercando di avvicinarci a un ipotetico sentire divino, ci ritroviamo a descrivere l’eternità come un accadere nel quale tutte le cose sono assieme, tutti gli attimi semplicemente sono e dove le nostre esistenze si esauriscono in un movimento impercettibile; una sensazione simile la vive il geologo che esplora il mondo e le sue vicissitudini, accadimenti che si misurano in ere la cui durata rimane per noi non esperibile.
Non a caso uno dei testi che accompagna il volume parla proprio di stratificazioni, illustrando bene come quello che noi chiamiamo esistenza non sia che una parte di un unico enorme movimento, della cui estensione riusciamo a percepire ben poco ma con il quale siamo in un continuo rapporto di reciprocità.
E qui arriviamo al motivo dell’ultima assenza che è però un’assenza solo apparente, ovvero quella dell’uomo.
In un racconto di luoghi e di identità ci aspettiamo di trovare soprattutto abitanti, magari ritratti nelle loro case, nelle loro faccende pratiche e sentimentali, mentre qui troviamo grandi opere deserte, camion e automobili che sembrano fermi in un riposo lungo e duraturo, e anche dove sono in movimento, in quello spazio identico che si ripete per quattro fotogrammi, prevale la staticità e l’inalterabilità del luogo. Ma assenza solo apparente, appunto, perché l’umanità si lascia conoscere specialmente attraverso le sue tracce: quelle che dissemina nelle famiglie con fotografie, filmati, lettere; quelle che lascia nei fiumi e nei boschi, quelle che col tempo la natura riabbraccia, trasforma, nasconde, o distrugge.
Allora l’uomo diventa non più esistenza singola, non più artefice assoluto - divinità meschina - ma si libera della sua distanza dal mondo per diventarne finalmente parte.
Ripercorrere l’Alemagna assume a questo punto un significato completamente nuovo: invita a ridimensionare l’umano, spogliandolo del suo isolamento, lo rimette su un percorso condiviso e realmente connesso, nel quale l’attraversare diventa un’azione consapevole, in un cammino che non sia solo dell’umanità ma del mondo intero.
La funzione di una strada è quella di essere percorsa al fine di raggiungere un luogo, il suo motivo di esistenza sta nel fare da collegamento da un punto A a un punto B, e di solito ne valutiamo la qualità in base a quanto renda confortevole il tragitto e quanto, soprattutto oggi, lo renda veloce.
Quando invece ci troviamo a ripercorrere una via senza nessuno scopo preciso allora ecco che la strada assume tutto un altro valore e diviene viaggio, diviene spazio significativo per sé stesso e non solo funzionale per altro, fatto di tempo necessario, di sguardo attento, di orecchie pronte all’ascolto. Ed è proprio l’udito il senso maggiormente coinvolto nel volume di Giovanni Cecchinato, perché sorpreso dal silenzio che si avverte in quei paesaggi che ci immaginiamo aggrediti dal traffico, dal vento che sbatte sui finestrini, dai cantieri che si moltiplicano esasperando il percorso: e così l’Alemagna compare, affiora nel suo senso e si fa soggetto.
È un’operazione di sottrazione, e l’assenza più evidente, dopo quella del rumore, è quella dell’immaginario abituale che accompagna l’Alemagna, ovvero le interminabili code di vacanzieri, la prospettiva del sedile e della noia, della voglia di arrivare presto alla meta: è assente la fretta.
Già solo riflettendo sulle modalità di scatto si intuisce come il fotografo si sia posto in una condizione diversa da quella abituale, cercando spazi e colori precisi, utilizzando attrezzature che necessariamente si allontanano dalla veloce fotografia del consumo. Sono momenti di riposo, intimi, nei quali il percorso, finalmente interrogato, può raccontare una storia che è esso stesso a determinare.
Innanzitutto sorprende la sospensione temporale, data da luci e toni sempre coerenti, una operazione che non ha una funzione solo estetica, ma che contribuisce ulteriormente alla sottrazione, qui eliminando l’inevitabile passare delle ore che viviamo durante il viaggio, espandendo l’istante e il movimento, e di fatto ponendoci in una situazione di fruizione anomala, dove ogni momento - dove ogni evento - risulta contemporaneo al precedente e al successivo. Allora la diga del Vajont diviene contemporanea al villaggio Eni, che vede la sua nascita e poi il suo abbandono contemporanei alla sua nuova veste, e il presente della totalità dell’Alemagna si fa presente con i resti romanici e con le sue più recenti espansioni e deviazioni, mentre i territori, anziché collocarsi in un prima e dopo si presentano tutti assieme, tutti sullo stesso piano.
La memoria e la storia subiscono lo stesso processo, quindi quello che di solito, in quanto passato, siamo abituati a considerare archiviato, non più vivo, riemerge con la stessa forza delle azioni presenti e future.
Molto spesso, cercando di avvicinarci a un ipotetico sentire divino, ci ritroviamo a descrivere l’eternità come un accadere nel quale tutte le cose sono assieme, tutti gli attimi semplicemente sono e dove le nostre esistenze si esauriscono in un movimento impercettibile; una sensazione simile la vive il geologo che esplora il mondo e le sue vicissitudini, accadimenti che si misurano in ere la cui durata rimane per noi non esperibile.
Non a caso uno dei testi che accompagna il volume parla proprio di stratificazioni, illustrando bene come quello che noi chiamiamo esistenza non sia che una parte di un unico enorme movimento, della cui estensione riusciamo a percepire ben poco ma con il quale siamo in un continuo rapporto di reciprocità.
E qui arriviamo al motivo dell’ultima assenza che è però un’assenza solo apparente, ovvero quella dell’uomo.
In un racconto di luoghi e di identità ci aspettiamo di trovare soprattutto abitanti, magari ritratti nelle loro case, nelle loro faccende pratiche e sentimentali, mentre qui troviamo grandi opere deserte, camion e automobili che sembrano fermi in un riposo lungo e duraturo, e anche dove sono in movimento, in quello spazio identico che si ripete per quattro fotogrammi, prevale la staticità e l’inalterabilità del luogo. Ma assenza solo apparente, appunto, perché l’umanità si lascia conoscere specialmente attraverso le sue tracce: quelle che dissemina nelle famiglie con fotografie, filmati, lettere; quelle che lascia nei fiumi e nei boschi, quelle che col tempo la natura riabbraccia, trasforma, nasconde, o distrugge.
Allora l’uomo diventa non più esistenza singola, non più artefice assoluto - divinità meschina - ma si libera della sua distanza dal mondo per diventarne finalmente parte.
Ripercorrere l’Alemagna assume a questo punto un significato completamente nuovo: invita a ridimensionare l’umano, spogliandolo del suo isolamento, lo rimette su un percorso condiviso e realmente connesso, nel quale l’attraversare diventa un’azione consapevole, in un cammino che non sia solo dell’umanità ma del mondo intero.
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