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Come si può narrare un paesaggio da cui si torna dopo del tempo? Come compiere un percorso a ritroso, di memoria, dove i fili con le proprie origini sembrano da tempo recisi?
Rhapsody è una vera e propria rapsodia, un canto delle origini che mette a nudo il presente di un luogo e ne mostra i lati più nascosti. Il racconto per immagini di Mauro Corinti è infatti un’elegia del confine, dove l’asperità delle montagne corrisponde ad un’asprezza del vivere ed alla semplicità di un ritrovarsi.
L’autore sembra qui richiamare, nell’estetica delle sue fotografie, autori come Luigi Ghirri. L’uso del colore, dell’inquadratura e la lirica che ne emerge riportano a quei frammenti di “paesaggio italiano” in cui le soglie rappresentano non solo dei punti di vista ma dei veri e propri ingressi nella mente del fotografo. Mauro Corinti sembra dichiararci questo dalla prima immagine, dove, da una finestra di una casa diroccata, spunta un suo braccio. Un nascondimento timido che lascia intendere allo spettatore che la presenza del fotografo ci sarà, ma non sarà mai evidente. Egli si posiziona come parte di un mondo un po’ in disfacimento, curioso narratore che sta su un limitare senza mai irrompere sulla scena.
Perché se la soglia è interna alla fotografia, ne rappresenta il posizionamento, di soglia si parla anche nel tema scelto dall’autore: il confine tra Marche ed Abruzzo.
Pastori, case decadenti, saracinesche abbassate: in Rhapsody il susseguirsi delle immagini è un’equazione tra paesaggio e flusso di coscienza. Potremmo designare questa equazione con il termine Geopoetica coniato da Kenneth White, secondo il quale: «Geopoetica è il nome che do da qualche tempo ad un “campo” che si è definito dopo lunghi anni di nomadismo intellettuale. Per descrivere questo campo si potrebbe dire che si tratta di una nuova cartografia mentale (1)».
Una visione ripulita da ideologie e da miti, postmoderna, dunque, dove al landscape corrisponde un mindscape; un linguaggio che esprime uno stare al mondo, un rapporto viscerale con la terra. Guardare attiva infatti meccanismi emotivi, analogici e simbolici che portano alla composizione di uno spazio, di un racconto (2). Le fotografie di Corinti sono esattamente questo: una narrazione che interpreta il territorio con gli occhi dell’autore.
Consapevole dell’imprendibilità del paesaggio, Corinti cerca di delineare uno spazio, una mappa. Come sottolinea lo stesso Calvino (3), però, questa operazione è destinata a rimanere incompiuta: in una mappa vi è sempre un centro, un “contenitore di disordine”, i cui bordi costituiscono un’incognita, uno spazio bianco. Ecco di nuovo emergere la “vertigine” della soglia.
Questo stesso senso di disincanto, di consapevole perdita dei riferimenti per far emergere uno sguardo diverso dal pittorialismo del XIX secolo, richiama i racconti fotografici dell’America di Alec Soth (4) o di Vanessa Winship (5).
Se del primo autore Corinti sembra richiamare, di primo acchito, l’uso della mappa come elemento di riferimento nella narrazione, in un secondo momento ci rendiamo conto come anche il posizionamento dell’autore sia lo stesso: la fotografia è vissuta come un agire poetico, una performance che passa da canali emozionali per narrare percorsi dell’immaginifico.
Il confine diventa dunque la chiave per raccontare la vita delle persone che lo vivono, il senso di “attesa-ferma” di chi aspetta che qualcosa cambi mentre tutto rimane lo stesso.
La memoria come fondamento comunitario ben si presenta nello scatto di alcune celebrazioni, con le persone vestite a festa e le bandiere tricolore, affiancato da un’immagine di una finestra e una porta murate. Una comunità che si dichiara ben fondata nelle proprie radici storiche ma che sembra rimanere chiusa al futuro. Un’immagine che richiama la fotografia di Vanessa Winship, in cui un palazzo dalle finestre murate riporta la scritta “Community” in vernice sui suoi muri: un chiaro richiamo ad una disillusione verso il sogno americano e le sue future prospettive.
Il paesaggio non è dunque qualcosa di utopico, di immaginato, ma è descritto, come ci dice lo stesso autore, tramite uno “sguardo astigmatico”, dai contenuti incerti. L’appartenenza, la distanza, un continuo movimento di avvicinamento e di allontanamento compongono un percorso che è anche una “struttura che connette” (6), che unisce natura e cultura, visione e disillusione, paesaggio e rapsodia.
Come sostiene il filosofo Félix Guattari nella sua opera Le tre ecologie (7), la natura non è da considerarsi all’opposto della cultura ma compone con essa un intreccio, un’ecologia. Questa categoria si compone di tre varianti: l’ambiente, le relazioni sociali e la soggettività umana. In Rhapsody questi tre elementi si combinano tra loro a comporre una geopoetica del confine in cui permangono un senso di spaesamento e di astigmatica disillusione.
1. White Kenneth (1994), Le Plateau de l’Albatros. Introduction à la géopoétique, Paris, Grasset, p. 11.
2. Cfr. Meschiari Matteo (2008), Sistemi selvaggi. Antropologia del paesaggio scritto, Palermo, Sellerio.
3. Calvino Italo (12 gennaio 1984), Un poeta per Diana, in «la Repubblica», recensione a G. Conte (1983), L’Oceano e il ragazzo, Milano, BUR.
4. Soth Alec (2017), Sleeping by the Mississippi, Mack ed.
5. Winship Vanessa (2013), She dances on Jackson, Mack ed.
6. Bateson Gregory (1984), Mente e natura, Milano, Adelphi.
7. Guattari Félix, Franco La Cecla (2019), Le tre ecologie, ed. La Sonda.
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